2 APR
La bellezza nasce dal silenzio
Pubblicato in: Cultura, Economia, Lavoro | 2 aprile 2013 - 11:29
la bellezza che nasce dal silenzio

Ancora ieri erano dimessi e silenziosi. Oggi gli alberi del viale cantano, sontuosamente, in coro. Bisogna dedurne che hanno fatto le prove nella notte, non c’è altra possibilità.

 

La natura ci mostra con chiarezza che l’inverno è necessario al dispiegarsi della primavera, la notte all’energia del giorno, il silenzio all’esplosione della bellezza, che ogni lussureggiante nascita ha bisogno della sua opportuna gestazione. Noi non siamo un’eccezione. La nostra energia nasce dal riposo, il buonumore dal buon sonno, la giusta decisione dalla riflessione. Ogni nostra azione viene necessariamente dal silenzio, da uno stato di vuoto solo apparente, che in realtà è gestazione, elaborazione, sedimento.

 

Eppure quanti di noi vivono vite armoniosamente fatte di pieno e vuoto, di azione e silenzio? Quanti di noi hanno la fortuna di poter condurre vite “naturali” in cui c’è sufficiente posto per il lavoro e il riposo? Quanti, invece, sentono di essere sotto un’eccessiva pressione, di essere stressati, come si dice troppo frequentemente?

 

Il nostro sistema economico ha fatto sfracelli della nostra reale natura. Fondato sull’imperativo della crescita infinita, premia da sempre tutto ciò che consente di inseguirne l’utopia, quindi ciò che non conosce requie e va veloce e che, senza fermarsi e velocemente, persegue lo scopo inarrivabile, la produzione infinita di merci e servizi. Le macchine sono perciò i suoi idoli. Il computer, l’ultima arrivata, è la macchina perfetta, la realizzazione del sogno economico infinito. I computer sono infatti praticamente privi di stati inerziali (riposo) e con tempi di elaborazione (pensiero) talmente infinitesimali da sembrare inesistenti. La loro affermazione ha messo sotto scacco l’uomo, facendolo apparire obsoleto e inadeguato alla produzione. L’unico riscatto possibile è sembrato, per l’uomo, quello di tentare di stare al  passo. E come si fa a competere con una macchina che non ha bisogno di riposare, né sembra aver bisogno di pensare prima di agire?

 

Non resta che comprimere i nostri “tempi morti”. Ridurre il sonno al minimo e per il resto correre, rendere infinitesimali anche i nostri spazi di elaborazione fino a sembrare come loro, sempre attivi, sempre efficienti, sempre on. Col computer, per i lavoratori, arriva il mito della performance, del costante movimento efficace. Cioè, non un movimento qualsiasi, ma un movimento capace di produrre risultati senza interruzione, al di fuori del quale restano solo azioni irrilevanti o colpevoli. Chiunque sia passato per una esperienza nell’industria sa di cosa sto parlando.

 

Tempo perso è la pausa-caffè, le chiacchiere tra impiegati, lo sguardo assorto se non accompagnato dal ticchettìo sulla tastiera. A chi non è capitato di sentirsi in colpa per aver lasciato l’ufficio troppo presto -senza fare straordinari cioè- per andare a prendere i bambini a scuola o fare la spesa o passare a trovare l’anziano genitore? Chi non si è mai sentito in colpa di avere anche una vita?

 

E agli impiegati, dopo qualche anno passato nell’inferno del movimento perenne, impotenti a dare voce e parole al disagio che comprime e trasforma tutta la loro vita, non resta che la salvezza nel paradosso: sposare la filosofia della performance e cavalcarla fieri, per quanto da essa per primi nevrotizzati e violentati. Tutti finiscono col prender parte al gioco al massacro, stigmatizzando comportamenti e sfottendosi reciprocamente, quando non si riesce a stare al passo, diventando così i peggiori nemici di se stessi. Per non patire la ferita di una perenne contraddizione con la propria più intima natura, si diventa tutti volenterosi collaborazionisti.

 

Siamo stati portati a interiorizzare sentimenti di colpa e inadeguatezza associati ad ogni esigenza non immediatamente e visibilmente produttiva. E dalla colpa siamo anche passati, per difetto di frequentazione, a sentimenti di paura per i nostri stati di riposo. La scarsa familiarità col silenzio -in definitiva con noi stessi- ci porta fino a temere la solitudine, a sentire con angoscia la possibilità di ritrovarci da soli senza nulla da fare.

 

Ma la catastrofica crisi economica che stiamo vivendo sta portando con sé, oltre a quelle più vistose e drammatiche, una conseguenza più nascosta, e forse salutare, una trasformazione valoriale, una caduta dei miti dell’efficienza. Un sistema che non è più in grado di assicurare sicurezza economica, stabilità, protezione per l’età della fragilità, è destinato infatti a perdere capacità di attrazione e di dominio culturale. Sarà sempre più difficile trovare nuove leve da formare alla filosofia dell’efficienza, in assenza di contropartita credibile. Se non sei in grado di assicurarmi nemmeno sopravvivenza, infatti, in nome di che cosa dovrei violentare me stesso, e cominciare a correre?

 

Sembrerebbe il tempo giusto per esercitare il nostro diritto alla naturalezza, e per familiarizzare finalmente con noi stessi. Per coloro capitati in mezzo, sulla dorsale del cambiamento economico e culturale, si tratterà di imparare a familiarizzare col silenzio prima di tutto. Potrà servire ricordarsi che non è vuoto ma fermento sottile, elaborazione, la continuazione dell’energia sotto altra forma, la sua forma gentile, intelligente.

 

Entrare in sintonia col silenzio vuol dire riprendersi se stessi, respingere al mittente miti e valori non naturalmente umani ma inventati, nell’esclusiva direzione del profitto. Al fondo di tutte le nostre nevrosi siamo fatti di pace, siamo elaborazione segreta, preludio di primavera.

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