12 MAR
città della scienza

Per capire cosa ci è veramente accaduto col rogo di Città della Scienza, mi sembra necessario recuperare qualche dato e mettere in fila qualche ricordo ed esperienza.

 

Nell’ultima classifica sulla qualità della vita nelle città italiane, stilata dal Sole 24 Ore nel novembre dello scorso anno, Napoli risultò penultima, 106esima sulle 107 province italiane. Per dare un’immediata idea di grandezza precisiamo che città, delle quali pur ci arrivano dati preoccupanti sui livelli di inquinamento e caos, come Milano e Roma, si sono attestate nella stessa classifica rispettivamente al 17° e 21° posto. A Napoli, quindi, si vive 5 o 6 volte peggio che nell’inquinatissima Milano o nella caoticissima Roma.

 

Concentrandoci poi su un solo aspetto di confronto, che però può restituire più immediatamente la differenza, perché attiene alla fruibilità e vivibilità dell’ambiente esterno, delle quali facciamo diretta e quotidiana esperienza, scopriamo, per esempio, che la città di Milano possiede una totalità di aree verdi di circa di 19,5 km2 per una popolazione di circa 1.250.000 abitanti, quindi dispone di una media di 15,2 mq di verde per abitante. La città di Napoli, per contro, dispone di 3,4 km2 di verde totale da suddividere per 1.000.000 circa di abitanti, quindi una media di 3,4 mq per abitante. Quattro volte e mezzo meno.

 

Rifacendoci poi alla nostra esperienza, laddove si ha l’occasione di vivere entrambe le città, possiamo dire senza tema di smentita che, se hai del tempo libero a Milano e decidi di fare una passeggiata nel verde, puoi raggiungere un’area verde a piedi da qualsiasi punto in cui ti trovi. Se concepisci lo stesso pensiero a Napoli o, dovrei dire meglio, se hai l’ostinazione di concepire lo stesso pensiero a Napoli (perché i pensieri smettono di sorgere quando li sai impossibili da realizzare), a meno che non abiti in 2 o 3 quartieri specifici, sai di dover prendere l’auto per recarti nel più vicino parco o alla fermata metro più vicina che ti porterà poi in prossimità dell’area verde.

 

Se siete genitori o single o, per colmo di sfiga, genitori-single nella città di Napoli (condizioni tutte che ho sperimentato insieme alla maggior parte dei miei conoscenti), sapete che uscire di casa per portare i bambini fuori nel verde, o portare se stessi a passare il tempo libero all’esterno, ben lontano dall’essere una leggera e piacevole parentesi, può esser vissuto come un’angosciante fatica, quella di trovare “qualcosa da fare” in un panorama urbano che ti offre una faccia indifferente al valore dello spazio comune, dove tocca per lo più al singolo inventarsi ritualità sensate.

 

In questo deserto dell’anima, ora immaginiamo cosa possa aver rappresentato Città della Scienza per la comunità partenopea. Un luogo, diciamolo subito, esso stesso bello, declinato in architetture calde e accoglienti, dove era piacevole prima arrivare e poi stare. Una meta quindi, prima di tutto, un luogo possibile per il nostro bisogno di esplorazione e movimento, poi un’oasi di intelligenza, di bellezza, di buona volontà, che accoglieva e rassicurava il nostro legittimo bisogno -tanto più pressante da queste parti- di essere parte di valori positivi. Proviamo poi a immaginare cosa abbia significato costruire Città della Scienza: sappiamo che ha richiesto una ventina d’anni di iniziative, sperimentazioni, progetti e accordi con enti e istituzioni. E tutto ciò portato avanti in una città nella quale, sappiamo, è molte volte più difficile far bene che altrove (6 volte di più che a Milano, ma anche 106 volte di più che a Bolzano secondo la sopraccitata classifica). Ebbene, una latta di benzina e un fiammifero lo scorso 4 marzo hanno azzerato in poche ore la meraviglia di questo presente e vanificato le energie del faticoso percorso di intelligenza e volontà che ad esso aveva portato.

 

A questo punto mi chiedo: per punire, ma ancor più per dare un nome a tutto questo, può bastare chiamarlo incendio doloso? Per organizzare una reazione adeguata alla gravità del fatto, sul piano sia penale che sociale, può bastare chiamarlo incendio doloso?

 

 

Il museo di Città della scienza veniva visitato ogni anno da 350.000 visitatori. Di questi, possiamo ben supporre che i 2/3 provenissero dalle immediate vicinanze e che la maggioranza  di essi fossero scolaresche, o bambini portati lì dai genitori come approdo sicuro a un luogo che promuoveva intelligenza in uno scenario pubblico altrimenti asfittico. Immaginando per difetto che fossero 200.000 i bambini visitatori, dobbiamo supporre che quest’anno 200.000 bambini dovranno trovarsi altro da fare, che i loro genitori abbiano una possibilità in meno da offrire al dispiegarsi della loro energia. Quando sarà bel tempo si dovrà prendere l’auto verso un luogo da inventare, e quando farà troppo freddo o troppo caldo (come pure accade spesso dalle nostre parti), si potrà stare a casa, a guardare la onnipresente televisione. Quanta diversa intelligenza sarà prodotta quest’anno dalle ore di televisione (diciamo 200.000 x 3 per difetto?) che andranno a sostituire le ore passate in Città della scienza da quei bambini? E per quanti anni dovrà essere così prima che Citta della Scienza venga ricostruita o che una struttura alternativa sostituisca il suo potenziale di attrazione e stimolo? E quanto saranno diversi quei bambini alla fine di questi anni?

 

E dunque è sufficiente chiamarlo incendio doloso? Se l’azione dell’uomo strappa a una comunità, con violenza, possibilità, abitudini, consuetudini, consegnandola ad un vuoto non immediatamente colmabile, consegnandolo alla necessaria riduzione di sé, stringendo in un angolo la sua energia vitale, si può chiamarlo solo incendio doloso? O non dovremmo mettere insieme parole nuove per dare senso e compiutezza a una ferita collettiva? Dare un nome a un dolore subito è il primo passo per la sua elaborazione e reazione, i dolori senza nome possono solo essere seppelliti nella coscienza, nascosti a noi stessi perché non ricevono riconoscimento. E un dolore collettivo non riconosciuto diventa depressione sociale, rassegnazione. L’humus perfetto per una cultura del fatalismo e del qualunquismo inerte. Ma come elaborare consapevolezza se siamo immersi in un mondo culturalmente inadeguato ad interpretare ciò che ci accade?

 

Sto dicendo questo perché la questione della revisione del nostro codice penale in direzione del  generale accoglimento delle nuove istanze e mutamenti della società è una delle annose questioni presenti all’interno della nostra infelice storia politica. Il popolo italiano ha ancora unicamente a disposizione per chiamare e sanzionare il presente, parole e categorie di pensiero degli anni 30. Il nostro codice penale, entrato in vigore nel 1931, oltre alla firma dell’allora guardasigilli, Alfredo Rocco, da cui prende il nome col quale è comunemente noto (codice Rocco), porta ancora in calce la firma dell’allora capo del governo Benito Mussolini e del re Vittorio Emanuele III.

 

Era il febbraio 1988 quando, per restare a tempi più recenti, fu istituita la commissione Pagliaro, per tentare l’elaborazione di una proposta di riforma. L’articolato che ne risultò introduceva per la prima volta, tra l’altro, i reati contro la comunità (che riguarderebbero il nostro caso), ma restò lettera morta. Da allora si sono succedute innumerevoli commissioni ministeriali con lo stesso scopo e senza migliore successo. L’inefficienza della politica a disegnare una nuova ossatura giuridica per un paese profondamente cambiato dagli anni 30 è stata definita dai giuristi“ il sintomo  di una relativa indifferenza della società politica ai suoi stessi mutamenti”.

 

L’incendio di Città della Scienza non è un reato contro l’incolumità (come attualmente articolato nel nostro codice penale), ma contro la comunità, contro la nostra vita, intesa come insieme di riti e costumi. Un paese come il nostro, dove sembra incredibilmente facile, con una bomba o un incendio, interrompere la gioia collettiva, azzerare risorse spese e speranze protese, frustrare l’energia vitale di un’intera comunità, avrebbe evidentemente bisogno di strumenti nuovi e specifici per pensare e organizzare se stesso. Chiamarlo incendio e lasciare ancora alla buona volontà e ostinazione e tenacia di un popolo, già affaticato dalla fatica che fa per sopravvivere (fino a 106 volte più che altrove, ricordate?), di gridare, ricordare, ricostruire e ancora ricostruire come formiche impazzite in balia del vento, è crudeltà sociale comparabile al rogo subito.

 

Ognuno faccia la sua parte. Noi cittadini doneremo soldi, e marceremo, e continueremo a gridare basta, e ancora e ancora lo faremo (come la scorsa domenica 10 marzo hanno fatto 15.000 persone raccolte a Bagnoli), ma le istituzioni e le parti politiche più sensibili alla crescita della nostra consapevolezza collettiva come motore del cambiamento culturale lavorino a questo, alla revisione del nostro sistema sanzionatorio, che è parte fondante del nostro sistema culturale.

 

Abbiamo bisogno di accorgerci di quello che ci succede, di quello che ci viene fatto, di quello che ci viene sottratto. Il mondo è profondamente cambiato, noi abbiamo bisogno di cambiare. Abbiamo bisogno delle parole giuste per chiamare le nostre ferite, per gridarle, e per guarirle.

 

P.S. Nell’attesa che la politica faccia la sua parte, per contribuire alla ricostruzione di Citta della Scienza sono disponibili diversi strumenti di contribuzione: 1) fino al 31 marzo 2013 sarà attivo il numero solidale 45599: con un sms si donerà 1 euro, con una chiamata da rete fissa allo stesso numero si doneranno 2 euro; 2)  sul sito di Città della Scienza sono inoltre disponibili tutti i dati per bonifici e sottoscrizioni.

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