Quattro anni di detenzione, cinque di interdizione dai pubblici uffici e 10 milioni di euro di risarcimento, questo il verdetto del processo Mediaset emesso ieri a carico di Silvio Berlusconi. La notizia e il suo protagonista sono di quelli che più possono indurci a ragionare con le viscere, a seconda delle simpatie-antipatie titillate ad arte dai media nell’ultimo ventennio. Perciò vale la pena di provare ad attivare le nostre migliori energie per comprendere appieno sostanza e destino di un provvedimento giudiziario.
Prima di tutto, lo sappiamo, la pena inflitta ieri a Silvio Berlusconi per frode fiscale, relativa a fatti di “sistematica evasione fiscale” nella gestione dei diritti tivù negoziati da Mediaset, per gli anni 2002-2003, non diventerà esecutiva fintanto che non venga confermata nei rimanenti due gradi di giudizio. Vigendo in questo paese, nonostante quanto possa far comodo affermare ad alcuni, uno dei sistemi giudiziari più garantisti al mondo, e in particolare il principio della presunzione d’innocenza sino a condanna definitiva, sino cioè all’esito del terzo grado di giudizio emesso dalla Corte Suprema di Cassazione.
Per gli effetti della legge di indulto 241 del 2006, apprendiamo poi, 3 dei 4 anni di reclusione inflitti sono immediatamente condonati. Ma è importante notare che, secondo quanto previsto dalla stessa legge, il beneficio dell’indulto sarebbe revocato qualora l’imputato incorresse in un’altra pena detentiva, non inferiore a due anni, per un delitto commesso entro i cinque anni successivi all’entrata in vigore della legge stessa. Ricordiamo che Silvio Berlusconi è indagato per induzione alla prostituzione nel cosiddetto processo Ruby, per fatti commessi fra il febbraio e il maggio 2010, e che dunque, un’eventuale condanna superiore ai due anni in tale processo annullerebbe il beneficio dell’indulto applicato alla sentenza Mediaset, e riporterebbe a 4 gli anni di reclusione comminati ieri.
Pende però sulla sentenza di ieri la possibilità della prescrizione, i cui tempi continuano a decorrere, e che per il procedimento Mediaset -fatti tutti i complessi calcoli prescritti dall’articolo 157 del Codice Penale e successivi che disciplinano la materia- verrebbe a estinguere il reato nel luglio 2014. In quella data quindi, se non esauriti i tre gradi di giudizio con sentenza definitiva, il reato di frode fiscale già imputato decadrà semplicemente. È sicuramente con tale preoccupazione in mente che i giudici di Milano D’Avossa, Guadagnino e Lupo hanno deciso di produrre ieri, con procedimento straordinario, il verdetto congiuntamente alla motivazione, invece di riservarsi i canonici 90 giorni per la successiva motivazione.
Una nota a parte merita l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. L’interdizione è pena accessoria che come tale segue la definitività della pena principale alla quale è collegata. Pertanto anch’essa non diviene esecutiva fino a sentenza definitiva, ed è esposta ai tempi della prescrizione, ma diversamente dalla pena principale non è soggetta a indulto, quindi resta, almeno per ora, invariata. Inoltre, l’interdizione è sanzione dal forte valore simbolico, e pratico, perché decreta di fatto, impedendo l’accesso alle cariche pubbliche, il dissolvimento di ogni carisma associato al potenziale d’influenza politica della persona. È per questa parte della sentenza, a mio avviso, ancor più che per la pena detentiva, che il titolo mediaset è crollato del 3% subito dopo la sentenza. Se confermato in via definitiva, infatti, tale provvedimento sancirebbe la fine della storia politica di Berlusconi.
Ciò detto, direi di evitare eventuali sentimenti di soddisfazione per l’indubbia fase discendente di una parabola personale. Credo che abbiamo bisogno di tutta la nostra libertà interiore per guardare avanti e viaggiare leggeri nel lungo cammino di ricostruzione che c’attende.
Mi limiterei ad osservare che la sentenza di ieri è un segno indubbiamente importante, di un paese che sta evidentemente liberandosi dalla morsa asfissiante di un sistema sfrontato e totalmente pervasivo delle istituzioni in direzione antidemocratica, capace, dal di dentro, di decostruire in ogni ambito, giudiziario, informativo, qualsiasi tentativo di ricondurre i fatti a verità e giustizia. Che per oggi il nostro sistema paese, ancor più che giudiziario, è riuscito a funzionare e a portare a compimento un suo legittimo processo di affermazione e difesa di sé. E che ciò è stato possibile evidentemente grazie al mutato scenario politico.
Tale affermazione non è frutto di emotività o spirito di parte, non è questione opinabile che la neutralizzazione delle precedenti sentenze di condanna a Silvio Berlusconi sia sempre stata conseguita con provvedimenti da egli stesso emanati in qualità di Presidente del Consiglio: ricorrendo alla prescrizione (i cui termini furono modificati opportunamente dal suo governo) o con l’introduzione (sempre da parte del governo da lui stesso presieduto) di norme che depenalizzavano il reato ascritto, in quello che è stato un infinito e gravissimo meccanismo di corto circuito democratico. Non è un caso quindi che questa sentenza di condanna arrivi a un anno dalla fine del suo governo. Così come non è certamente un caso che lo stesso Berlusconi stia oggi già parlando di ricandidarsi, contraddicendo quanto affermato con gran rumore soli due giorni fa, ben consapevole che solo il mantenimento del potere politico può assicurargli il passato corto circuito e il passaporto per l’impunità.
Però, se non è lecito prevedere il destino dell’iter giudiziario di Silvio Berlusconi, possiamo dire, guardando al consenso personale del cavaliere, attualmente attestato intorno all’11%, e alle nuove forze politiche in ascesa nel paese, che testimoniano di un profondo e incontrovertibile cambio di paradigma culturale, che qualsiasi tentativo di ripristinare il passato è ormai impossibile.